Ferrini replica a La Malfa/Un affollato parcheggio agostano scambiato per il centro

Il "terzo polo" non è un’ancora di salvezza

di Luca Ferrini*

Nel diritto romano, anche durante la Repubblica, esisteva un delitto atroce: la lesa maestà o, con termine latino, la maiestas. Tale delitto era secondo, per gravità, soltanto al parricidio, punito con la poena cullei: il reo veniva chiuso in un sacco e gettato nel padre Tevere, in compagnia di una scimmia, un gallo e altri due animali.

Anch’io mi sono macchiato di maiestas scrivendo della condotta del La Malfa. Giorgio. Attendo sereno la formidabile sanzione. Gradirei, tuttavia, ricevere – oltre alle contumelie del mio contraddittore – anche un equo giudizio dagli amici, lasciando la mia difesa all’ascolto della registrazione fonografica dell’insanguinata Direzione Nazionale. Poi, faccia di me il padre Tevere ciò che vuole. Non domando nemmeno l’ultima delle risorse del condannato: la provocatio ad populum. Non la chiedo perché il popolo, se non altro quello presente alla Direzione repubblicana, non avrebbe dubbi da che parte stare. Ma so anche che, spesso, il popolo sbaglia e non è affidabile nei suoi giudizi. Soprattutto quando le sottigliezze della politica raggiungono livelli incomprensibili; o almeno incomprensibili per uomini di intelligenza al di sotto della media, come me.

Segnalo, tuttavia, quasi a gioire della mia mediocrità, un passaggio da Il Genio di Harold Bloom, testo consigliato dall’ideologo Luca Barbareschi agli aspiranti finiani: "Il genio, a mio parere, è stravagante e sommariamente arbitrario e, in ultima analisi, isolato". Chi ci ricorda?

Veniamo a noi. Cosa devono fare i Repubblicani? Giorgio La Malfa dice che il momento è propizio per muoversi e la misura è colma. Berlusconi ha tradito le aspettative (in due anni) e Fini l’ha capito prima di noi. L’uno è agli sgoccioli, l’altro fonda un nuovo gruppo in Parlamento. E i due Repubblicani, che fanno? Be’, che diamine, seguiranno i movimenti del volto nuovo della politica: Pierferdinando Casini. Oppure dell’altro énfant prodige: Francesco Rutelli. O di tutt’e due. Va bene cosi?

Per me, come la metti la metti, è un accordo al ribasso.

Devo seguire Rutelli? Casini? E dove? In mezzo a un guado? Per risolvere che cosa?

La tattica funziona quando si hanno eserciti preparati a combattere. Noi stiamo ancora aspettando il rancio. Magari proprio dall’on. La Malfa.

L’unico obiettivo che possiamo prefiggerci, sempre se vogliamo cordialmente salutare l’amico Silvio - che ci ha ospitato nelle sue liste e nel cui gruppo parlamentare qualcuno aveva ritenuto opportuno iscriversi - è quello di seguire il ragionamento di Bersani: che vuole un Esecutivo di transizione per arrivare ad una nuova legge elettorale (che salvi le piccole minoranze?).

Dopotutto, in una democrazia bipolare, nella quale nostro malgrado (soprav)viviamo, quando un progetto fallisce, se ne traggono le conseguenze. Se Berlusconi è divenuto (in un anno) un fantasma incapace, un forza politica seria fa il suo lavoro: politica. E siccome questa è l’arte del possibile, non dell’utopia, dovrebbe rivolgere il suo sguardo all’unico interlocutore credibile: cioè al maggior partito di opposizione.

Si apre la crisi perché i finiani vorrebbero logorare un premier che non si lascia logorare? Bene. Prendiamone atto. Ma non guardiamo troppo all’attuale centro, perché lì, per noi, non c’è un’ancora di salvezza, al massimo c’è un affollato parcheggio agostano. Alla meglio, un ammasso di indecisi che non sanno dove andare. Che anelano ad una visibilità e ad uno spazio che quello sciagurato popolo che abita la Penisola italica non vuole concedere loro. Figuriamoci, poi, dopo lo squallore degli ultimi tempi, con la politica che parla stupidamente solo a se stessa e la gente con le tasche vuote. Ma, cribbio, davvero qualcuno crede che se andassimo domani al voto gli elettori premierebbero Casini e Rutelli!? Ma dove vivete, amici, in Alice in Wonderland?

Oppure, freghiamocene di tattica e passettini. Lasciamo l’abbraccio berlusconiano per costruire qualcosa di nostro, di nuovo. Per mettere la prima pietra a quell’edificio tanto vagheggiato che chiamiamo polo liberal-democratico.

Questo, però, significherebbe perdere tutto. Significherebbe metterci alla testa di una rivoluzione culturale prima che politica. Convincere il popolo italiano, o quella piccola parte di esso che può darci ascolto, che l’ora è venuta. Che dobbiamo aprire gli occhi, smettere di rincorrere le semplificazioni di un sistema malato e ricorrere, invece, ad una cura da cavallo su tutti fronti: dall’economia all’etica pubblica, dal federalismo alle partecipazioni statali. Un grande movimento, ripeto, prima culturale e poi politico, che si prefigga davvero un cambiamento della società italiana.

Ne siamo capaci? Forse. Siamo pronti? No. E allora guardiamoci in faccia: vale la pena di gettare alle ortiche, in quattro e quattr’otto, quel poco che ci resta? O non è forse il caso, oggi più che mai, di muoverci sì, ma con grande prudenza? Anche perché non esiste solo il Parlamento della Repubblica: esistono anche realtà periferiche nelle quali siamo presenti; e nelle quali scatenare terremoti al buio non è proprio la cosa migliore.

*Vicesegretario Pri